L’epopea dei barcàri, antica e gloriosa nel Veneto serenissimo dei quattrocento canali, finisce improvvisamente negli anni Sessanta, col benessere e con le prime autostrade; e le vite degli ultimi traghettatori – dure, romantiche e un po’ zingaresche – si fanno leggenda popolare.
1964: mentre nel mondo il mito del progresso si accompagna con la vergogna del razzismo, in Italia si inaugura l’Autostrada del Sole e il Festival di Sanremo vende milioni di dischi, fra una lacrima sul viso, non ho l’età e se domani…
In riva al Sile, Ugo, l’ultimo barcàro, ha ormeggiato la sua barca in attesa di un vento nuovo. I suoi ricordi, agli occhi del giovane mozzo Napoli, diventano quadri di una ballata:
El burcio, una barca quasi umana (“varda qua: oci spiritai, che i vien fora dal’aqua e i te varda, oci de n’altro mondo”) che ha contribuito alla nascita di Venezia (“giera solo sabia e aqua, e moschiti; tuto el resto, vien zo dai nostri boschi e dale nostre montagne”);
Pioppe e poppe, il paesaggio eterno el fiume (“co te va zo pian, par anse, piarde, seche, cossa te vedi? Alberi, e femene.”);
‘A Coalonga, l’interminabile parto a bordo, mitico come i fontanassi da cui nasce il fiume (“ma cossa gierelo, un cristian o ‘na bisata?”);
El Munaron, l’incendio della Storia e della guerra vissuto da spettatori (“no, che non so orgoglioso. Ansi, vuto che te diga, son anca un poco vergognoso, ma un vergognoso vivo”);
El Diluvio, di oggi e di ieri, la natura come maledizione (“e va’! Va’ via! Piena de desgrasie, el signor no xe con ti, maledetta ti fra tute le barche, e maledetto el fruto del to ventre!”);
El simitero dei burci semisommersi (“’Come talvolta stanno a riva i burchi / che parte sono in acqua e parte in terra”. Dante. A l’inferno li ga messi, i burci). Intanto però i quadri di questa ballata si alternano a quadretti di comicità involontaria: il furto del motore (“lo fasso parché te si Nane, come mi”), la sceneggiata della gelosia (“ve afondo tuti tre, ti, ela e ‘l to burcio, come l’Andrea Doria”), la denuncia della nascita all’anagrafe (“Nato a…? – La testa la xe vegnuda fora a Casier, ma…”), i comprimari (“lo ciamavimo Dentrofora, perché el beveva come ‘na spugna – clinton, de queo che te fa e gengive de legno – e pissava forabordo”); il ricordo del padre coi suoi schersi da barcaro:“nol cresserà mai”.
Così, anche senza volere, la vita di Ugo si fa spettacolo, la sua barca un palcoscenico galleggiante, la sua vela un fantastico fondale e insieme una bandiera. E Ugo, coi suoi ricordi, un cantastorie, come in fondo è sempre stato: perché il vento nuovo, quello che ancora e sempre gonfia la sua vela, è quello delle emozioni di chi lo vede passare dalla riva.
“Ogni volta ogni volta che torno, non vorrei non vorrei più partir…”
ROBERTO CUPPONE
Il Veneto ha più canali nell’entroterra che in laguna: quattrocento, che collegano Venezia con Treviso, Padova, Vicenza, fino a Milano, e che hanno portato giù nei secoli tronchi e maségni per i palazzi dogali, sùcaro e forménto per la povera gente. Il barcàro è stato il suo pony express: pirata nella fantasia e zingaro di fatto, sospinto dalla bava, tirato dai cavalànti, sempre avanti tirando a sangue la sèngia col petto. Tra la nebbia del Sile e il ghiaccio della laguna, tra un parto a bordo e il furto del motore, el can da burcio che no sbàja, l’incendio del Munaròn, strìghe e bisate, la sua eroicomica epopea finisce improvvisamente col boom degli anni Sessanta. Perché?
Cosa ci stiamo perdendo? Cosa sta scorrendo via con l’acqua dei fiumi? Forse le parole antiche, capaci ancora di andare da sponda a sponda; forse l’idea di radici come scelta e non come destino.
“Veneti anfibi, che gavè desmentegà le baìxe: steve pure là, imagài suea restéra: tanto prima, o dopo, mi passo” (Veneti anfibi, che avete dimenticato le branchie, statevene pur là, immobili sull’argine: tanto, prima o dopo, ritorno).
L’epopea antica e gloriosa dei navigatori di fiume
Gigi Mardegan vara il “Barcaro” sulle acque del Sile